Il souvenir, spesso grottesca paccottiglia, è un vero e proprio messaggero, un oggetto con origini antiche e motivazioni psicologiche profonde che ne guidano l’acquisto. È un oggetto di transito, che permette il passaggio dall’esperienza vissuta alla realtà del ritorno, resa meno traumatica dalla presenza di un oggetto che, concentrando i significati, ha la straordinaria capacità di risvegliare il ricordo di emozioni già lontane.
L’andare non basta dunque; il rimpatrio deve essere accompagnato da un oggetto o addirittura una prova sulla pelle dell’avventura: il volto abbronzato diventa un trofeo da esibire, così come lo erano le decalcomanie devozionali con cui venivano marchiati i pellegrini a Loreto.
Il souvenir è un premio, ossia un testimone di vittoria.
Etimologicamente “souvenir”, di accezione francese, deriva dal latino subvenire, che in forma transitiva significa “accorrere in aiuto”; lo stesso verbo, ma in forma intransitiva, significa invece “tornare alla mente”, “venire alla memoria”, “ricordarsi”.
Il turista acquista per poter vivere l’esperienza del consumo, per possedere una parte “in condensato” di ciò che si è vissuto durante la vacanza, per rinnovare le sensazioni e i ricordi anche dopo il rientro. Sono tappe di un percorso: le video riprese così come le fotografie, portano con sé il valore dimostrativo di essere stati in un luogo e di averne goduto; le fotografie dimostrano indiscutibilmente che il viaggio è stato fatto, che il programma è stato attuato, che il divertimento è stato raggiunto.
Ma sarebbe sbagliato pensare che il souvenir abbia una valenza solo per chi lo acquista; se ciò fosse vero, non si spiegherebbe l’esistenza di migliaia di gift shops, ossia “negozi di regali”. Il souvenir è anche un dono. Marcel Mauss, nel suo celebre saggio scritto nel 1923, sostiene che nell’oggetto donato rimane sempre qualcosa del donatore, un potere magico che i Maori chiamano “hau”, uno spirito che aleggia e impregna l’oggetto regalato e che farebbe scaturire nel ricevente l’obbligo di contraccambiare.
Il souvenir è un presente che giustifica l’assente.
La sua funzione è quella di “sovvenire”, quindi non ci si aspetti che abbia anche una valenza pratica, come ci dimostra la scrittrice umorista americana Erma Bombeck, la quale rivendica il diritto e il piacere di comprare assurda paccottiglia: “Per me comprare souvenirs è una delle grandi gioie del viaggio. Ho acquistato portachiavi di peli di cinghiale, orrende magliette con la scritta “Sono andato in Nuova Guinea e nessuno mi ha mangiato”, fermacarte di vetro con dentro il mostro di Loch Ness e una banda musicale di rane di cera messicana dalla sguardo atterrito. Senza contare le candele a forma di eschimese con lo stoppino sulla testa e le federe con i volti dei fratelli Kennedy fosforescenti. Quando, aprendo un cassetto, mi capita sotto gli occhi un apribottiglie con una minuscola foto del Vesuvio sull’impugnatura, subito vengo assalita dai ricordi e mi rendo conto che quello è stato denaro speso bene”.